L’assoluta impossibilità di assistenza alla prole non deve essere estrema
L’assoluta impossibilità dell’assistenza deve interpretarsi nel senso che occorre tenere conto, da un lato, del necessario rigore imposto dalla eccezionalità della situazione e, dall’altro, dei diritti, costituzionalmente garantiti, all’uguaglianza dei membri della famiglia, all’assistenza della prole, alla funzione rieducativa della pena.
Tanto emerge da un recente pronunciamento della Suprema Corte di Cassazione, sezione prima penale n° 21966 depositata il 17/05/2018 in tema di concessione della misura alternativa alla detenzione in carcere al detenuto per reati di criminalità organizzata.
La vicenda.
R.D., condannato in via definitiva per il reato di cui all’art. 416bis c.p., si è rivolto al Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria invocando, ex art. 4˝7-ter, comma 1-ter, lett. b), ord. pen., la concessione della detenzione domiciliare quale misura alternativa alla detenzione carceraria, al fine di assistere la prole di età minore essendo a ciò impossibilitata la moglie affetta da «disturbo dell’adattamento con ansia e depressione misto e disturbo dipendente di personalità».
Il Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria ha rigettato l’istanza, sul duplice presupposto che il «disturbo dell’adattamento con ansia e depressione misto e disturbo dipendente di personalità» non è elemento sufficiente per l’accoglimento della richiesta di misura alternativa, e che, in ogni caso, la donna espletava regolare attività lavorativa e manifestava, quindi, adeguate competenze sociali.
Inoltre, ad avviso dei giudici territoriali, il detenuto – durante l’osservazione intramuraria – aveva manifestato un indice di prognosi criminale tale da ritenere probabile la reiterazione di condotte penalmente rilevanti.
Il ricorso ai Giudice di legittimità.
Avverso la decisione dei Giudici di Reggio Calabria ricorrevano i difensori di R.D., denunciando violazione di legge e difetto di motivazione, rilevando: intanto, che la condanna per la partecipazione ad associazione mafiosa non è da sola sufficiente a ritenere attuale il pericolo di reiterazione del reato; inoltre, che il presupposto dell’assoluta impossibilità di assistenza alla prole da parte della moglie, non è escluso dalla sola circostanza che la donna svolga attività lavorativa.
La decisione.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso di R.D, non senza chiarire la ratio della norma di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, lett. b), ord. pen., la cui introduzione è stata conseguente alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 215/1990, che ha ravvisato una violazione dell’art. 31 Cost. laddove sussisteva l’originaria impossibilità per il detenuto padre di prole di età inferiore a dieci anni ad offrire alla stessa una adeguata assistenza nei casi in cui la madre sia a ciò impossibilitata.
I Giudici di legittimità hanno individuato i requisiti per la concessione della misura alternativa de qua: da un lato, il limite di pena detentiva residua non superiore ai quattro anni e, dall’altro, l’esercizio da parte del detenuto della responsabilità genitoriale nei confronti della prole unitamente e contestualmente alla situazione di assoluta impossibilità della madre di fornire ai figli la necessaria assistenza morale e materiale.
Il principio espresso dagli ermellini.
La decisione in commento si segnala per il chiarimento che apporta in merito alla nozione di “assoluta impossibilità di assistenza” alla prole minore da parte della madre, presupposto imprescindibile, si è detto, per la concessione al padre della misura alternativa alla detenzione.
La giurisprudenza di legittimità interpreta rigorosamente la nozione di “assoluta impossibilità di assistenza”. Per i supremi Giudici occorre tenere conto di tre elementi distinti: del necessario rigore imposto dalla eccezionalità della situazione; dei diritti costituzionalmente protetti all’uguaglianza dei vari membri della famiglia all’assistenza della prole; della funzione rieducativa della pena.
Ciò detto, chiariscono i supremi Giudici, l’assoluta impossibilità della madre ad accudire la prole non può essere intesa in modo rigido. Non è richiesta una difficoltà estrema, tale da superare le normali capacità reattive della persona, autonomamente considerata e nel contesto familiare.
Nel caso di specie, e in applicazione del principio in commento, la circostanza che la moglie del detenuto avesse svolto regolare attività lavorativa non poteva essere utilizzata come elemento da cui ricavare la capacità della donna ad accudire la prole minore, specie in costanza di una relazione peritale che acclarava le difficoltà della stessa nel gestire le proprie responsabilità genitoriali, per lo più determinate dalla situazione patologica in cui versava.
In estrema sintesi, per la Cassazione si è in presenza di un “assoluto impedimento” ogni qualvolta il genitore non è in grado di garantire alla prole di minore età “adeguate capacità accuditive”.
(Cassazione penale Sez. 1^ n° 21966/18 depositata il 17/05/2018) – Testo integrale sentenza
Avv. Giuseppe GERVASI